Gruppo Liturgico Villa Cortese - Parrocchia Villa Cortese

- Diocesi di Milano
Parrocchia San Vittore Martire
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Gruppo Liturgico
L’importanza della presenza di una équipe liturgica nelle comunità parrocchiali nasce dalla necessità di realizzare celebrazioni che esprimano efficacemente il senso comunitario della liturgia, infatti "Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è "sacramento dell’unità" (...).
Perciò tali azioni appartengono all’intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano; ma i singoli membri vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità degli stati, degli uffici e della partecipazione effettiva" (Sacrosanctum Concilium [SC], n. 26).
A questo si aggiunga il fatto che per rispettare la dignità della celebrazione liturgica, ogni ministro o semplice fedele è chiamato a realizzare una piena partecipazione compiendo tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e delle norme liturgiche, è di propria competenza (cfr. SC 28).
1° Corso di Formazione
   Parrocchia San Vittore martire – Villa Cortese
   Corso per la formazione del gruppo liturgico
1. La liturgia: l'oggi della storia della salvezza
Liturgia
Il termine viene dal greco Leiturghía (da léiton, 'luogo degli affari pubblici', che a sua volta viene da laós, 'popolo', ed érgon, 'opera'); il termine, precristiano, indicava un'azione, un'iniziativa assunta liberamente da un privato in favore del popolo, della città, dello stato. In seguito perdette il suo carattere di libera iniziativa: liturgia fu detto qualunque servizio reso allo stato o alla divinità (servizio religioso).
Nella traduzione greca dell'Antico Testamento detta dei Settanta, il termine è usato per indicare il servizio religioso levitico, prima nella 'tenda' e poi nel tempio: termine tecnico che designava il culto pubblico e ufficiale, distinto dal culto 'privato' al quale ci si riferisce con altri termini: latria o dulia.
Nel Nuovo Testamento liturgia non indica mai la celebrazione cultuale cristiana (unica eccezione At 13,2), non perché non ci fossero forme di culto liturgico, ma per la 'novità' del culto cristiano, che risultava male espresso da un termine troppo legato al culto del sacerdozio levitico. Presto, in scritti di origine giudeo-cristiana, la parola viene recuperata: in Didaché 14 indica la celebrazione dell'eucaristia.
Nel linguaggio della chiesa antica liturgia viene a indicare un culto totalmente nuovo nel contenuto, perché avviene nella realtà nuova del sacerdozio di Cristo. Nella chiesa orientale di lingua greca la parola è addirittura sinonimo della celebrazione dell'eucaristia. Nella chiesa occidentale invece il termine non è usato; dal xvc secolo viene riferito a libri, rituali antichi o a tutto quello che riguarda il culto della chiesa.
In epoca moderna si giunse all'impropria equivalenza tra liturgia e ritualità cerimoniale e rubricale. Questa situazione (anche nell'insegnamento!) perdurò fino agli inizi del Novecento. Il Movimento liturgico dei primi decenni del Novecento promosse la riaffermazione di solidi fondamenti teologici per una liturgia che fosse formativa per la vita spirituale del cristiano. In sintesi:
a) la liturgia è culto della chiesa, continuazione di quello di Cristo; comunitario e pubblico perché in esso si esprime la natura propria della chiesa, comunità adunata intorno a Cristo;
b) nella liturgia si compie il mistero di salvezza, ovvero l'opera salvifica di Dio dispiegata nel tempo. Alcuni tratti fondamentali fondano la celebrazione liturgica:
— l'avvenimento primordiale di salvezza;
—     la presenza dell'avvenimento per mezzo di un rito;
—     la possibilità per ogni uomo, di ogni tempo, di attuare come proprio, di incontrare nella propria esistenza, il primordiale evento di salvezza con tutta la sua efficacia.
In questa prospettiva il culto non è prioritariamente movimento dell'uomo verso Dio; ma di Dio verso l'uomo. La liturgia cristiana è azione per il popolo e del popolo.
La costituzione conciliare Sacrosanctum concilium parte dalla prospettiva del progetto di Dio. II Signore Gesù Cristo con il suo sacerdozio non ha celebrato una liturgia, ma ha offerto al Padre un culto in verità. Liturgia è quindi l'esercizio dell'opera sacerdotale di Cristo attraverso segni significativi ed efficaci; la perpetua attuazione del mistero pasquale di Cristo.
Storia della salvezza
Il giorno dell'Epifania viene annunciata la data della Pasqua. La versione italiana termina con le parole: «A Cristo che era, che è e che viene, Signore del tempo e della storia, lode perenne nei secoli dei secoli» (cfr. Eb 13,8). Si veda anche la preparazione del cero nella Veglia pasquale. La chiesa ripete continuamente a se stessa e al mondo che Gesù è il Signore, il Vivente, centro e cardine della storia della salvezza, unico Salvatore dell'uomo, l'Emmanuele 'Dio con noi', colui che dà senso compiuto alle vicende e alle domande di senso che agitano il cuore di ogni uomo.
L'incarnazione e gli eventi che ne seguono collocano il Figlio di Dio al centro del tempo, che da lui riceve significato e senso pieno. Nella Novo millennio ineunte Giovanni Paolo Il dice: «Cristo è il fondamento e il centro della storia, ne è il senso e la meta ultima» (n. 5).
La rivelazione presenta il tempo come dimensione in cui Dio svela e compie il suo progetto (storia) di salvezza. Ciò che fa il valore del tempo e rende la storia dell'uomo tempo di salvezza è l'intervento di Dio, il suo compromettersi definitivo e irreversibile con l'uomo, la sua mano tesa per tirarlo fuori dalla condizione che lo impoverisce nella sua dignità. La salvezza è un dono che va conosciuto e accolto: nessuno si salva da sé!
Così Dei Verbum 2: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura. Con questa rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi per invitarli e ammetterli alla comunione con sé».
Questa comunione tra Dio e l'uomo e con tutti gli uomini, compromessa e ostacolata spesso dal rifiuto dell'uomo, è opera dello Spirito di Dio ed è chiamata, nella logica dell'incarnazione che guida tutta la storia della salvezza, a farsi visibile e storicamente percepibile in una comunità, in un popolo cioè di convocati, di persone che accolgono l'invito di Dio, partecipano alla vita divina e si impegnano a vivere secondo la sua Parola: «Come Dio creò gli uomini non perché vivessero individualmente ma destinati a formare l'unione sociale, così "[Dio] volle santificare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di essi un popolo che lo riconoscesse nella verità e fedelmente lo servisse"» (G5 32).
San Paolo chiama mistero il progetto di salvezza di Dio che si attua nella storia. Con questa espressione egli indica l'eterno decreto di Dio, deliberato prima dei secoli e nascosto al mondo, ma svelato pienamente con la venuta di Cristo, soprattutto nella Pasqua. I Padri parlano di economia della salvezza per indicare invece il modo concreto con cui il progetto va realizzandosi gradualmente nella storia umana. Il tempo è concepito non più come un cerchio chiuso, un eterno ritorno, ma come una spirale, in cui si va compiendo il progetto di Dio. Il fatto centrale e decisivo, Cristo, orienta tutta la storia prima e dopo di lui (cfr. Comunicare il vangelo in un mondo che cambia, 11 s.). È la stessa pedagogia della chiesa nella celebrazione dell'anno liturgico, che è azione salvifica unitaria. L'uomo ne partecipa gradualmente, ma il mistero è in se stesso totale e perfetto.
La rivelazione aiuta a scoprire anche come Dio compie tutto ciò, ossia la pedagogia da lui messa in atto, che diventa normativa anche per la pastorale cristiana. È la legge delle mediazioni sensibili (segni), con cui Dio mostra la sua condiscendenza nei confronti dell'uomo e si adatta a lui, spirito incarnato che conosce, fa esperienza, entra in comunicazione-comunione attraverso parole e gesti.
Oggi
Questo progetto ha il suo preludio nelle mirabili gesta divine operate nel popolo dell'Antico Testamento, è stato compiuto da Cristo Signore, specialmente per mezzo del mistero pasquale, continua nella liturgia. Come? La categoria chiave è il memoriale. È una parola usata dal Signore: «Fate questo in memoria di me». Già nell'Antico Testamento esprime la realtà dell'evento e la sua attuai izzazione. L'evento commemorato non viene ripetuto, non solo fa sentire il suo effetto oggi, ma è presente. Si pensi alla Pasqua dell'antica alleanza: il memoriale «di generazione in generazione» si apre alla vita e sconfina nel quotidiano, è esperienza di salvezza. Aprendosi al presente concreto la celebrazione illumina, accogliendolo, il passato che permane nel memoriale e si carica di speranza aprendosi al futuro di Dio.
I cristiani riprendono e ampliano tale concezione. L'evento Cristo con il suo culmine nella Pasqua rende il tempo 'compiuto', ma non 'chiuso'; Cristo è un compimento capace di suscitare nuovi inizi. Ogni uomo che vive nella storia è chiamato a essere coinvolto nell'evento salvifico. Ogni celebrazione liturgica è sempre un'azione del Signore glorificato nella comunità dei credenti riuniti nel suo nome e, di conseguenza, è sempre un evento di presenza di Cristo tra i suoi, secondo le diverse modalità in cui tale presenza si attua. Per realizzare un'opera così grande (redenzione umana e glorificazione di Dio) Cristo è sempre presente nella sua chiesa (cfr. SC 7).
È tipico di alcune solennità l'avverbio oggi. La liturgia evidenzia l'attuazione e l'attualizzazione del mistero nel particolare contesto di ciascuna assemblea. In un tempo ben determinato si rende realmente presente il Cristo risorto; la celebrazione congiunge l'oggi dei fedeli e la perenne e attuale presenza del Dio dell'alleanza. Un esempio, l'antifona al Magnificat dell'Epifania: «Tre prodigi celebriamo in questo giorno santo: oggi la stella ha guidato i magi al presepio, oggi l'acqua è cambiata in vino alle nozze, oggi Cristo è battezzato da Giovanni nel Giordano per la nostra salvezza».
A questo oggi sacramentale dobbiamo essere educati per attingere la forza necessaria per vivere il continuo oggi della nostra vita.
(Redatto dall’ufficio liturgico della Diocesi di Roma)
2° Corso di Formazione
Parrocchia San Vittore martire - Villa Cortese
      Corso per la formazione del gruppo liturgico

2. La celebrazione cristiana

Che cosa significa celebrare?
Celebrare è parola-chiave del vocabolario cristiano. Il suo uso nella liturgia è antichissimo, ma nel parlare comune è divenuto frequente solo dopo la riforma liturgica. Prima infatti si diceva: "Dire la messa, amministrare un sacramento, recitare l'Ufficio, fare un funerale".
In ogni tempo, cultura e religione, l'uomo ha celebrato i momenti importanti della vita e custodito la memoria degli eventi storici per lui significativi. L'evento non solo è, ma significa qualcosa per l'uomo, che esprime il significato delle cose e lo trasmette ad altri: in questo modo rinnova una gioia, rievoca un dolore, trasmette un insegnamento, afferma una fede o una speranza, ribadisce l'appartenenza al gruppo.
Celebrare è dedicare tempo a ciò che è importante
Gli uomini dedicano tempo a ciò che è importante per il lavoro e gli affari; oppure alle relazioni familiari, sociali e di svago. Dedicarsi a queste ultime, 'gratuite', implica spesso la rottura con il quotidiano e la scoperta di nuovi significati per la vita e di un nuovo rapporto con gli altri. In questa linea si colloca anche il senso della festa, che è componente fondamentale di ogni celebrazione. Una nazione festeggia giorni determinati per celebrare la sua storia; una persona festeggia il compleanno. I cristiani fanno festa per celebrare la storia dell'umanità salvata in Gesù Cristo: le singole feste sono tappe di questa storia che viene ricordata e rivissuta in pienezza ogni domenica nella celebrazione dell'eucaristia e degli altri sacramenti. La celebrazione cristiana esige un clima di festa per l'evento salvifico che evoca e ripresenta e per ciò che preannuncia, contesto festivo prezioso per dare pienezza ai segni e alla partecipazione e per favorire l'adesione di fedeli al mistero di Cristo. La festa fa da cornice e cassa di risonanza della celebrazione. Al contempo deve tener conto dell'evento celebrato (la Pasqua di Cristo, mistero di morte e risurrezione) ed evitare quindi esuberanze esagerate e fuori posto. Occorre infine tendere alla realizzazione di una celebrazione piena, attiva e consapevole (cfr. SC 21) rispettando il carattere sacramentale e simbolico dell'esperienza liturgica e la libertà e i limiti dei singoli che formano un'assemblea (gradualità nei gesti e atteggiamenti).
Celebrare è 'dar vita' a ciò che è importante
Dedicando tempo a ciò che è ritenuto importante, in certo senso si fa esistere ciò che si celebra, se ne colgono il significato profondo e le conseguenze... Il ricordo di un avvenimento passato è sempre indispensabile a ogni forma di celebrazione; ma questo ricordo ha implicazioni per la vita presente, che nella celebrazione si attualizza e dilata, si arricchisce e trova motivo e ispirazione per un futuro nuovo e diverso. La capacità di radicare l'evento nel futuro e la possibilità di trasmetterne ad altri il significato è alla base di ogni celebrazione.
La celebrazione cristiana è memoria, presenza e profezia della storia salvifica che ha nel mistero pasquale di Cristo il suo centro propulsore e la sua sintesi dinamica. La sequenza passato - presente - futuro costituisce la dimensione portante di ogni azione liturgica. Essa parte dall'evento fondatore (passato), lo attualizza nella celebrazione (presente), anticipandone la pienezza escatologica (futuro).
Celebrare significa 'fare comunione'
Non si celebra mai da soli. Una celebrazione richiede la riunione di un gruppo di persone interessate e coinvolte nel ricordo e nell'attualizzazione dell'avvenimento che è alla base della festa. La celebrazione è sempre atto sociale: non solo perché implica la riunione di più persone, ma anche perché dalla e nella celebrazione il gruppo approfondisce legami, senso di appartenenza, coesione. La celebrazione non solo manifesta, ma fa la comunità. Ecco perché ogni celebrazione è un momento forte nella vita di un gruppo sociale.
Nella celebrazione liturgica i cristiani sono confermati nella comune fede in Gesù Cristo e fanno corpo con lui: si manifestano e si edificano come popolo di Dio, chiesa del Signore (cfr. SC 2).
Celebrare vuol dire 'agire' insieme
La celebrazione di un evento implica sempre una serie di parole, di atteggiamenti, di gesti 'rituali' cioè simbolici, destinati a esprimere e dare corpo ai sentimenti profondi di gioia, di comunione, di ricordo del passato e di impegno per il futuro. È nella natura dell'uomo servirsi di queste mediazioni. Parole, gesti, atteggiamenti sono desunti dall'esperienza ma, inseriti nel contesto di una celebrazione, acquistano significato e dimensioni nuove.
L'azione liturgica si compie attraverso segni sensibili (cfr. SC 7) destinati a esprimere e realizzare il mistero pasquale di Cristo e la comunione nello Spirito di tutti coloro che formano il suo popolo e sono riuniti, nella celebrazione, in suo nome. Essa è perciò costituita da atteggiamenti, parole, gesti che ricevono significato non solo dall'esperienza umana da cui sono tratti, ma soprattutto dalla parola di Dio che li illumina, li proietta nella storia della salvezza e li costituisce elementi fondanti della comunità cristiana.
In sintesi
Ogni celebrazione cristiana:
-   è atto di culto: l'azione salvifica operata da Dio in Cristo Gesù provoca la risposta della comunità dei salvati. Si compiono così i due significati etimologici del termine liturgia: azione per il popolo e azione del popolo (cfr. CCC 1083);
-   presuppone come segno e realizzazione ottimale la riunione in assemblea, e si realizza attraverso alcune componenti essenziali: Parola, preghiera (presidenziale e comunitaria), azione simbolica con riti e gesti (cfr. C/C 906: il sacerdote non celebri il sacrificio eucaristico senza la partecipazione di almeno qualche fedele se non per giusta e ragionevole causa);
- ha sempre per oggetto il mistero pasquale di Cristo: ne proclama l'attuazione e ne preannuncia la realizzazione piena, con modalità diverse (vari momenti della vita o vari tempi). In prospettiva pastorale: la centralità del mistero pasquale vale anche nella celebrazione del matrimonio e in altre circostanze simili (prime comunioni, cresime...) nelle quali la mentalità comune tende a declassare il rito a semplice 'festa degli sposi / dei comunicandi';
- ha come scopo: lodare e ringraziare il Signore e accrescere la nostra comunione con Dio attraverso i vari elementi costitutivi che aiutano la fede e favoriscono l'incontro con il Padre, in Cristo, per mezzo dello Spirito;
- si colloca in tempi e in spazi determinati.
La ritualità celebrativa
La liturgia è un complesso di segni, un 'sistema rituale' con cui la comunità dei credenti e, in essa, ciascun discepolo, fa memoria della storia della salvezza e del mistero pasquale di Cristo, che ne è centro e cardine. Il rito è la mediazione che rende attuale e presente l'evento e colui che nell'evento opera e parla, Gesù Cristo. Nel rito la comunità e i singoli fedeli sono messi in condizione di attingere alla sorgente della salvezza.
A tutti i livelli della vita l'uomo si esprime mediante sistemi simbolici ritualizzati. La nascita, la crescita, l'amore, la sofferenza e la morte, la festa: tutto può essere ed è normalmente vissuto ritualmente. Rito è ordine, regola. I riti sono espressione ordinata, riconosciuta e accettata dei valori del gruppo e i canali privilegiati della loro trasmissione. Accettare il rito vuoi dire riconoscersi nel gruppo, nella sua cultura, nella sua religione e quindi manifestare e rafforzare i vincoli di appartenenza a esso. Le diversità rituali sono segno di diversità culturale. A tutti i livelli: i riti dei giovani, incomprensibili agli adulti, le ritualità diverse tra i popoli... Ogni intervento sul rito è delicato, in quanto tocca il simbolico della comunità e comporta reazioni contrastanti.
Il culto cristiano dà ampi spazi al rito e al simbolo. Non poteva essere altrimenti dal momento che "il Verbo si è fatto carne" (Cv 1,14). E anche dopo la risurrezione la quasi totalità delle apparizioni del Risorto avviene nel segno del mangiare insieme. È la legge dell'incarnazione, delle mediazioni sensibili, della sacramentalità (cfr. DV 2). Segni, parole, gesti e riti di portata simbolica che vanno oltre la dimensione intellettuale per proiettarsi verso una dimensione trascendente (dal visibile all'invisibile). Il loro significato e la loro efficacia derivano soprattutto dal riferimento a eventi della salvezza di cui sono segni memoriali.
Il rito cristiano ha bisogno di una catechesi liturgica che ne insegni il linguaggio specifico (parole e segni, cfr. SC 48ss.) e che dalla celebrazione tragga le conseguenze per la vita (mistagogia). Ma bisogna stare attenti a non esagerare. Spiegazioni continue e ulteriori interpolazioni e mediazioni (didascalie, monizioni che riducono le azioni liturgiche a un mimo), producono il risultato contrario, aumentando il distacco dei fedeli dalla liturgia.                                                                  (Redatto dall'ufficio liturgico della Diocesi di Roma)
3° Corso di Formazione
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3. Tempi per la liturgia
Il vero culto
Al momento della morte di Gesù il velo del tempio si squarciò da cima a fondo (Mt 27,51). Da allora non esistono più osservanze di tempi e luoghi, né cicli di sole e luna: tutto il creato è stato ricondotto al suo destino originale.
Già la predicazione dei profeti aveva intuito e proclamato che il mondo è il vero tempio di Dio, che la vita dell'uomo è vero sacrificio a lui gradito e che questo si sarebbe compiuto definitivamente in Cristo. Il vero culto è quello reso a Dio con la vita.
Gesù stesso proclama 'vero adoratore' non colui che adora Dio su questo o quel monte, ma chi lo adora "in spirito e verità" (Gv 4,21-24) e dichiara che "è giunta l'ora, ed è questa" in cui il tempio di Dio è la creazione, il mondo è l'altare dove si offre un sacrificio in cui vittima e sacerdote coincidono. I discepoli di Gesù sono chiamati, come lui, a offrire la vita a Dio, a trasformare ogni momento dell'esistenza in lode e offerta, a fare della loro vita, in unione con quella di Gesù, un unico e perfetto sacrificio. Pertanto i luoghi e i momenti in cui si compie questa offerta-sacrificio di sé sono quelli dove si svolge la vita. Sono i luoghi dove l'uomo gioisce e soffre, lavora e riposa, ama, vive e muore. Il mondo intero è tempio dove Dio si manifesta.
Il sacerdozio battesimale in Cristo
Rigenerati e unti dallo Spirito Santo "i battezzati vengono consacrati a formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo" (LG 10). Questo sacerdozio esercitato dai discepoli di Gesù si riferisce al sacerdozio di Cristo, che è in tutto diverso da quello antico: mentre i sacerdoti offrivano ripetuti sacrifici, Gesù ne offre uno solo e una volta per sempre (Eb 9,11s.); i sacerdoti di ogni legge offrono la vita di altri, Gesù offre la sua stessa vita; i sacerdoti dell'antico rito entrano ed escono più volte da templi di pietra, Cristo invece è entrato una volta per tutte nel tempio unico e non costruito dall'uomo: il seno stesso del Padre. Con Gesù il principio della sostituzione (la vita della vittima per quella dell'offerente) è abolito: Dio non accetta più questo tipo di offerta. Questa è la grande novità apportata dal cristianesimo.
Ma i cristiani hanno ripreso a costruire case per il culto, a dedicare luoghi e tempi dichiarandoli 'santi'. Tale prassi non vuole contraddire il Maestro, ma intende utilizzare linguaggi e categorie simboliche ancora in grado di esprimere realtà nuove, scegliendo spazi e tempi che ricordano la manifestazione di Dio. Essi possono aiutare ad accostarsi a Dio, e l'uomo li dedica come 'primizia e decima' della creazione. Il cristiano sa bene che Dio non ha necessità di luoghi, tempi, vesti, insegne, formule e non fa dipendere da questi segni la possibilità di incontrarlo. Saranno utili finché riusciranno a comunicare all'uomo il senso del trascendente e del divino, ma si dovrà sempre vigilare a che questi segni non ostacolino la ricerca di Dio o addirittura non si sostituiscano a lui: sarebbe una degenerazione superstiziosa e idolatrica.
Il tempo dell'uomo, tempo di salvezza
Per incontrare l'uomo e offrirgli grazia e salvezza, Dio non ha bisogno di calendario o di feste. Ogni momento è tempo di salvezza. È l'uomo che ha bisogno di scandire il tempo in ritmi regolari per far ritornare alla mente momenti, fatti e memorie che rivestono per lui particolare importanza. Non è Dio che si lascia muovere dal tempo ma è l'uomo che, muovendosi nel tempo, se ne lascia muovere. Rievocare un evento è riviverlo, e così si affida ai ricorsi del tempo (stagioni, anni, cicli di anni) e dei giorni (calendario) la capacità di rievocare e far vivere l'evento rendendolo, in qualche modo, attuale. Così è accaduto anche con l'evento Cristo, nel quale la salvezza si rese presente nel tempo.
San Paolo rimprovera i Galati e i Colossesi di attenersi troppo all'osservanza di "giorni, mesi, stagioni e anni" (Gal 4,10), "feste, noviluni e sabati" (Coi 2,16): sono "cose di poco conto in quanto ombra di cose future; la realtà invece è Cristo" (Coi 2,17s.). Ma gli stessi apostoli avevano continuato a frequentare il tempio nelle ore di preghiera, nelle feste e nelle ricorrenze (cfr. At 3,1).
Le generazioni successive avvertirono la necessità di riempire il tempo con la memoria di Cristo, formando pian piano un calendario che ripercorreva gli eventi del mistero di Gesù. Per questa via la chiesa ha elaborato progressivamente il suo anno liturgico. Dal comando di Gesù: "Fate questo in memoria di me", e dal bisogno del discepolo che l'evento di salvezza divenga disponibile qui e ora in suo favore nasce il tempo della chiesa.
Il giorno del Signore
Fin dall'origine la comunità cristiana individuò un giorno come suo proprio, gli diede il nome di giorno del Signore o domenica e lo caratterizzò con il riunirsi per ascoltare la predicazione degli apostoli e "spezzare il pane" (At 2,46). Era il giorno della risurrezione di Cristo e delle prime apparizioni del Risorto. Gesù stesso sembra aver dato questa indicazione apparendo ai suoi nel Cenacolo "otto giorni dopo" la risurrezione (cfr. Gv 20,26). La riflessione della chiesa approfondì il senso del giorno del Signore e vi conobbe altre ricchezze: in quel giorno lo Spirito Santo era sceso sugli apostoli ed era nata la chiesa; la domenica è giorno ottavo, sabato definitivo, anticipazione e figura del sabato eterno.
Rispettando questo ritmo settimanale, la comunità cristiana fece diventare la domenica il giorno della chiesa perché giorno dell'assemblea (1 Cor 11,18). È giorno della Parola e dell'eucaristia, della fede, della gioia, della memoria e dell'attesa, della carità e della preghiera, della festa e del riposo. Giorno distintivo, segno di appartenenza alla chiesa, per il quale si poteva anche morire perché i cristiani "non possono vivere senza celebrare il giorno del Signore".
L'anno liturgico
L'uomo non può cogliere con un solo sguardo tutto il mistero di una vita, e ciò lo porta a ripercorrere tappa dopo tappa gli eventi di una storia e di un'esistenza. Anche i gesti e le parole di Cristo furono ripercorsi dalla comunità cristiana uno per uno e posti alla base delle memorie liturgiche.
Gli eventi sono le vicende della vita di Gesù culminati nella Pasqua. Sono oggetto della celebrazione del mistero di Cristo durante l'anno. Raggruppati e organizzati in cicli (Avvento, Natale, Quaresima, Pasqua e Tempo ordinario) o disseminati in date fisse, attendono di incontrare l'uomo per comunicargli salvezza. Quando ci si accosta con fede al mistero celebrato, si è raggiunti da esso, se ne viene coinvolti e l'evento 'rivive' e opera con la stessa efficacia di allora. Attraverso il memoriale celebrativo l'evento continua a produrre l'effetto salvifico.
Le parole. Quello che è vero per gli eventi lo è anche per le parole. La Parola, che il cristiano può sempre leggere privatamente, ha un'altra efficacia quando è proclamata nella celebrazione. Essa risuona ora, per me, qui, nella mia storia, con efficacia non diversa da quando fu pronunciata la prima volta. Cristo stesso la proclama, e il suo mistico corpo è sua voce, sua lingua, suo cuore (cfr. SC 7).
Durante l'anno liturgico tutto il mistero di Cristo e il piano di salvezza sono ripercorsi e rivisitati mediante la proclamazione delle letture proposte dal Lezionario.
Maria e i santi nell'anno liturgico
"Nelle feste della Madre di Dio, degli apostoli, dei santi e nella commemorazione dei fedeli defunti, la chiesa pellegrina sulla terra proclama la Pasqua del suo Signore" (Annuncio del giorno di Pasqua). Dall'unico mistero di Cristo scaturisce la venerazione della beata Vergine Maria, madre e discepola del Signore, immagine della chiesa, primizia della nuova creazione. Celebrando il Figlio la chiesa incontra la Madre: nel mistero della incarnazione, nel Natale, nell'Epifania, nella Presentazione di Gesù al tempio, nelle nozze di Cana, nella Passione, nella Pentecoste.
Radunati in assemblea liturgica, i fedeli esprimono anche la loro comunione con la chiesa gloriosa nella Gerusalemme celeste "venerando anzitutto la gloriosa e sempre Vergine Maria, Madre del nostro Signore Gesù Cristo" (Preghiera eucaristica I) e scoprendo che il servizio del culto deve trasformarsi, come fu per Maria, in diaconia di carità verso i fratelli.
Anche la memoria dei martiri e dei santi su fonda sul mistero pasquale di Cristo, 'corona dei martiri'.
La liturgia delle ore
La lode che la chiesa innalza nel tempo al Signore, e che ha come culmine la celebrazione eucaristica, si dilata alle singole ore del giorno vissute nella memoria dei misteri di Cristo. La preghiera di lode è intessuta di salmi e cantici. Si pone in atto il dialogo tra Dio e l'uomo che è 'sacrificio di lode', atto comunitario con cui ci si rivolge a Dio "dal sorgere del sole al suo tramonto". Duplice cardine di questo sacrificio è il canto delle Lodi al mattino e dei Vespri la sera (PNLO 9).
In un certo senso anche il tempo è sacramento della Pasqua: il tramonto annuncia la notte/morte, l'alba proclama la luce/vita.
(Redatto dall'ufficio liturgico della Diocesi di Roma)
4° Corso di Formazione
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4. Luoghi per la liturgia
La chiesa

La parola - come in latino, in greco e nell'originale semitico - indica la comunità radunata, persone che si riuniscono in base a una chiamata. Con lo scorrere dei secoli l'assemblea radunata presta il suo nome all'edificio di culto in cui è convocata, ma primariamente il termine indica la comunità dei credenti.
I primi cristiani si riunivano nelle case, nelle quali solo uno o più ambienti erano destinati al culto. Erano fornite spesso di elementi divisori e di arredamento mobile, prive di caratteri distintivi e di uniformità tipologica. La stessa spiritualità del cristianesimo primitivo privilegiava un culto non legato a edifici o luoghi, ma vissuto nello spirito della comunità e del singolo credente.
Nel III secolo si creano le condizioni perché i luoghi di culto diventino stabili e di proprietà della comunità. L'ecclesia domestica diventa domus ecclesiae. Tutti gli ambienti vengono adibiti a uso liturgico, con varie funzioni: vi sono una grande sala per le riunioni aperta sul cortile centrale, un battistero, una stanza per l'agape (cena condivisa) e, talvolta al piano superiore, anche l'abitazione dei sacerdoti e alcune stanze per i catecumeni. La stabilizzazione del luogo provoca l'ampliamento semantico del termine ecclesia, che non designa più solo la comunità dei fedeli, ma anche il luogo di riunione, la casa di Dio. Si pongono così i presupposti della basilica cristiana, l'edificio chiesa, che nasce con la libertà di culto (Costantino, 313 d.C.)
A Roma, gli scavi condotti sotto chiese paleocristiane hanno riportato alla luce i resti di case private risalenti al III secolo. La maggior parte delle chiese romane di origine paleocristiana è infatti fondata su precedenti domus ecclesiae o tituli (titolo di proprietà, riconosciuto alla chiesa). A capo della chiesa era un presbitero, coadiuvato da ministri a lui sottoposti.
La storia lega indissolubilmente l'edificio all'assemblea che vi si raduna. È l'assemblea celebrante che genera e plasma l'architettura. La chiesa - popolo di Dio sacerdotale, regale e profetico - comunità gerarchicamente organizzata che lo Spirito Santo arricchisce di carismi e ministeri, si raduna nell'edificio e, in qualche modo, proietta, imprime se stessa in esso, vi ritrova tracce significative della sua fede, storia, identità, nonché anticipazioni del suo futuro. Lungo il corso dell'anno l'assemblea vi si raduna per fare memoria del mistero pasquale di Cristo nell'ascolto delle Scritture, nella celebrazione dell'eucaristia, degli altri sacramenti e sacramentali e del sacrificio di lode. Lì la comunità credente accoglie ogni uomo che bussa alla sua porta e, mediante segni visibili, gli rivela la propria fisionomia e gli parla. Tra assemblea celebrante ed edificio-chiesa sussiste un legame profondo: la celebrazione cattolica è tutt'altro che indifferente all'architettura e, viceversa, l'architettura di una chiesa segna la liturgia che vi si celebra. Tale legame non è dato una volta per tutte ma muta nel tempo: come non esiste una liturgia immutabile, così non esistono un'architettura e un'arte per la liturgia immutabili (Nota pastorale L'adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica, 11).
Elemento caratterizzante è la capacità dell'edificio di essere simbolo della realtà che vi si compie, ossia della comunione con Dio. Inoltre la chiesa-edificio, poiché evoca una comunione già in qualche modo anticipata e vissuta, si può considerare luogo escatologico, "segno e simbolo delle realtà celesti". Come le celebrazioni liturgiche rinviano l'una all'altra a formare una realtà unitaria, così la chiesa-edificio non è solo l'insieme delle sue parti, ma un organismo unitario (ibid., 12).
I molteplici linguaggi della liturgia - parola, silenzio, gesto, movimento, musica, canto - trovano nello spazio il luogo della loro globale espressione. Lo spazio contribuisce con il suo specifico linguaggio a potenziare e unificare la sinfonia di linguaggi di cui la liturgia è ricca. Così, anche lo spazio, come il tempo, viene coinvolto dalla celebrazione del mistero salvifico, assumendo caratteri nuovi e originali, una forma specifica che lo rende definibile come 'icona' (ibid., 13).
L'altare
In ogni religione l'altare è centro del culto sacrificale e segno della presenza divina, centro del mondo, in cui è visibile l'asse cosmico che congiunge cielo e terra.
L'altare cristiano è segno permanente di Cristo sacerdote e vittima, fondamento, capo e centro della chiesa. Egli è segno della presenza di Dio fra gli uomini. Agnello immolato e Vivente, Cristo compie in sé le figure dell'antico tempio e dell'altare: offre se stesso sull'altare della sua obbedienza divenendo luogo unico nel quale si rende culto a Dio. È la roccia percossa dalla quale scaturiscono i fiumi dello Spirito che dà vita (cfr. Gv 7,37-39; 19,34), compimento della profezia di Ezechiele che vede scaturire dall'altare sul lato destro del tempio l'acqua che risana e dona vita. I cristiani che offrono, in Cristo, il sacrificio della loro vita, sono anch'essi 'altare' (Prefazio della Dedicazione dell'altare).
Per antica tradizione l'altare, ara e mensa, deve essere di pietra naturale, fisso, segno di Cristo roccia e pietra angolare della chiesa. Anche se consentito l'uso di altra materia, comunque degna, solida e ben lavorata, è bene che almeno la mensa dell'altare sia di pietra.
La chiesa nutre venerazione e riverenza per l'altare; per questo esso viene baciato, incensato e riceve dai ministri l'inchino profondo del corpo. Come uno solo è il Salvatore, uno solo sarà l'altare (Premesse al Rito della dedicazione di un altare, 158). Centro dell'attenzione di tutta l'assemblea, deve essere separato dalla parete, tale che il presidente possa girargli intorno e celebrare rivolto verso il popolo. È dedicato a Dio e a lui solo, perché è a lui che si offre la vittima pura e santa, il sacrificio di lode e di ringraziamento (ibid., 161).
L'ambone
L'importanza della parola di Dio esige che nella chiesa vi sia un luogo adatto, conveniente per dignità e funzionalità, dal quale essa venga annunziata e verso il quale si rivolga spontaneamente l'attenzione dei fedeli durante la liturgia della Parola. Deve essere un ambone fisso, non un semplice leggio mobile; nel rispetto della struttura propria di ogni chiesa, deve essere disposto in modo che i ministri possano essere comodamente visti e ascoltati. Dall'ambone si proclamano le letture, il salmo responsoriale e l'annuncio pasquale; vi si possono tenere l'omelia e la preghiera universale. Non conviene però che vi salgano il commentatore, il cantore o l'animatore del coro, o che diventi supporto per libri diversi dal Lezionario e dall'Evangeliario.
Dalla Scrittura vengono attinte le letture illustrate nell'omelia o i salmi, dal suo afflato e dal suo spirito sono permeate le orazioni e gli inni, da essa prendono significato le azioni liturgiche, ma soprattutto, quando nella chiesa si legge la Parola, Cristo è presente (SC 7) ed è lui stesso a parlare quando si proclama il vangelo (SC 33).
La sede della presidenza liturgica
"La sede è il luogo liturgico che esprime il ministero di colui che guida l'assemblea e presiede la celebrazione nella persona di Cristo, Capo e Pastore, e nella persona della chiesa, suo corpo. Per la sua collocazione essa deve essere ben visibile da tutti e in diretta comunicazione con l'assemblea, in modo da favorire la guida della preghiera, il dialogo e l'animazione. La sede del presidente è unica e non deve avere forma di trono; possibilmente non sia collocata né a ridosso dell'altare preesistente, né davanti a quello in uso, ma in uno spazio proprio e adatto" (L'adeguamento, cit., 19).
Non è solo un oggetto funzionale al bisogno di far sedere colui che presiede. La chiesa cattedrale si chiama così perché in essa è presente la cattedra del vescovo, cioè la sede della presidenza liturgica di quella chiesa particolare radunata per la celebrazione: un segno tanto importante da qualificare l'intero luogo. Dall'importanza simbolica della cattedra episcopale assume significato e valore ogni sede dalla quale il presbitero presiede a nome del vescovo (cfr. SC 42).
Insieme con l'ambone e l'altare è uno dei poli principali della celebrazione e richiama una delle forme di presenza di Cristo nella liturgia: assemblea, parola, ministro e specie eucaristiche (cfr. SC 7).
La chiesa non è una semplice società umana, ma un dono che viene dall'alto; chi convoca e costruisce la chiesa è Dio stesso per mezzo di Cristo e per opera dello Spirito Santo. Tale realtà teologica è resa visibile e comprensibile a tutti attraverso il segno della sede. Essa, come del resto la stessa assemblea, è anche segno dell'ultima convocazione alla fine dei tempi, per celebrare la Pasqua eterna.
Ove possibile, è bene provvedere anche opportune sedi per gli altri ministri e per i ministranti, queste sì funzionali, distinte da quelle del presidente e dei concelebranti (L'adeguamento, cit., 19).
La custodia eucaristica
Il Signore Gesù è presente nella chiesa in modo eminente nelle specie eucaristiche: "In quel sacramento infatti, in modo unico, è presente il Cristo totale e intero, Dio e uomo, sostanzialmente e ininterrottamente" (EM 9). Per questo motivo le specie eucaristiche, fuori della celebrazione, vengono custodite con grande cura e riverenza nel tabernacolo e conservate per l'amministrazione del viatico, per la comunione fuori della messa, soprattutto dei malati, e per l'adorazione. La custodia eucaristica, luogo della presenza di Gesù nostra Pasqua e pane vivo, è segno della nuova alleanza, punto di sosta della chiesa peregrinante. L'adorazione prolunga ed esprime quell'amore nuziale fra Cristo e la sua chiesa che si concretizza sacramentalmente, quale caparra delle nozze eterne, nella celebrazione dell'eucaristia, vero luogo dell'incontro con Cristo sposo attraverso la comunione sacramentale.
In ciascuna chiesa il tabernacolo per la riserva eucaristica deve essere unico e non collocato sull'altare; inamovibile, solido, inviolabile e non trasparente, sistemato in un luogo che si distingua per nobiltà e decoro. La miglior soluzione è una cappella apposita, facilmente identificabile e accessibile, assai dignitosa e adatta per la preghiera e l'adorazione. In alternativa alla cappella eucaristica, può essere individuato uno spazio apposito all'interno dell'aula (cappella laterale), da adattare perché sia funzionale alla preghiera e all'adorazione e da evidenziare opportunamente (L'adeguamento, cit., 20).
Davanti al tabernacolo arde perennemente una lampada, per tradizione alimentata a olio o cera, che indica e onora la presenza reale di Cristo nell'eucaristia ed è segno dell'ardente desiderio della sposa di unirsi al suo Sposo, cioè del desiderio di ogni fedele di rimanere unito a Cristo.
Il battistero e il fonte
Il battistero è luogo del fonte battesimale e spazio per la celebrazione del sacramento. Può trovarsi nella chiesa (ben visibile ai fedeli, per favorire la partecipazione comunitaria), o fuori, sufficientemente ampio per ospitare un'assemblea numerosa (Premesse al Rito del battesimo, 25s.).
Fin dal IV secolo, vicino alle prime cattedrali e in unico complesso architettonico, venivano costruiti battisteri per la celebrazione dei sacramenti dell'iniziazione: grandi cappelle, generalmente intitolate a san Giovanni Battista, che battezzò il Signore Gesù nel Giordano. Al centro veniva collocato il fonte (o vasca) battesimale.
Soprattutto in epoca post-tridentina, il battistero subì una forte involuzione: da ambiente comunitario, usato nelle grandi feste del Signore, si passò a una sorta di armadio battesimale che finì per svilire la dignità dell'azione liturgica e favorì una celebrazione stilizzata e quasi privata. La prassi attuale purtroppo non sembra aver recepito appieno lo spirito della riforma liturgica: antichi e preziosi battisteri sono dismessi o trasformati in depositi e sostituiti da recipienti mobili di materiale vario di discutibile dignità e gusto.
Viene ribadito che tutte le chiese cattedrali e parrocchiali debbono avere il proprio battistero, luogo ove zampilla o viene conservata l'acqua del fonte battesimale e dove i riti sacramentali possono essere celebrati con dignità e decoro. Il fonte, specialmente nel battistero, deve essere fisso, in materiale adatto e costruito con arte, curato e realizzato in modo da poter consentire il battesimo per immersione, gesto maggiormente significativo dell'azione sacramentale. Per sottolinearne la significatività, venga realizzato in modo che l'acqua ne zampilli come da vera sorgente, prevedendo anche la possibilità di riscaldare l'acqua.
Il battistero è solitamente di forma rotonda o ottagonale. Il circolo indica la perfezione dell'eternità; il numero otto è simbolo del giorno escatologico che trascende la settimana. Circolo e ottagono sono quindi simboli dell'eternità della nuova vita, ottenuta in dono con il battesimo, e della risurrezione finale.
(Redatto dall'ufficio liturgico della Diocesi di Roma)
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